La delibera 120/21/CONS pubblicata il 14 maggio 2021 da Agcom sancisce: non è lecito che gli operatori telefonici chiedano agli utenti di pagare il COSTO DI ATTIVAZIONE se lasciano in anticipo il contratto, prima cioè dei 24 mesi. Una strategia che finora ha voluto scoraggiare le eventuali disdette anticipate. Il nuovo principio che salva parecchi consumatori da extra costi di disdetta è, come si diceva, in una delibera che l’Autorità garante delle comunicazioni ha pubblicato oggi per sanzionare la Wind Tre per quasi un milione di euro per questo motivo.
La delibera 120/21/CONS sottolinea che il principio ha una valenza universale, dato che praticamente tutti gli operatori esercitano l’opzione di fare pagare l’attivazione solo a chi disdice prima dei due anni. Questa dei costi di attivazione ‘a scomparsa’ è una delle lamentele più ricorrenti: gli utenti scoprono di doverli pagare solo dopo la disdetta.
Si legge nella delibera “Com’è noto, l’art. 1, comma 3, del c.d. decreto Bersani, nel testo novellato dalla legge. n. 124/2017 (c.d. “Legge concorrenza”), oltre a confermare il principio generale secondo cui non possono essere imputate agli utenti “spese non giustificate da costi degli operatori” ha specificato che le spese di recesso devono essere “commisurate al valore del contratto e ai costi realmente sopportati dall’azienda, ovvero ai costi sostenuti per dismettere la linea telefonica o trasferire il servizio”.
Inoltre, nel caso di contratti che includono offerte promozionali, a seguito dell’introduzione dell’art. 1, comma 3-ter, è altresì necessario che gli eventuali costi per il recesso anticipato siano anche “equi e proporzionati al valore del contratto e alla durata residua della promozione offerta”. Per fornire alle imprese un quadro comportamentale chiaro e uniforme, in ordine all’applicazione delle norme richiamate, con la delibera n. 487/18/CONS, l’Autorità, all’esito della consultazione pubblica avviata con delibera n. 204/18/CONS del 22 maggio 2018, ha approvato il testo delle “Linee guida sulle modalità di dismissione e trasferimento dell’utenza”, chiarendo di conseguenza le modalità di svolgimento della relativa attività di vigilanza sull’ottemperanza da parte degli operatori alla disciplina normativa di rango primario, con riferimento a tutti i casi di recesso esercitato dopo l’entrata in vigore della delibera. Con particolare riferimento al tema delle promozioni, l’Autorità ha chiarito che le spese di recesso imputate agli utenti a titolo di restituzione degli sconti devono essere commisurate al “valore del contratto”- a sua volta definito come “prezzo implicito che risulta dalla media dei canoni che l’operatore si aspetta di riscuotere mensilmente da un utente che non recede dal contratto almeno fino alla scadenza del primo impegno contrattuale” (punto 19 delle Linee guida) – nonché essere eque e proporzionate alla durata residua dell’eventuale promozione (punto 26 delle Linee guida), come sancito all’articolo 1, comma 3-ter, dello stesso decreto.
L’Autorità ha altresì osservato che dalla norma da ultimo citata si ricava il principio per cui la restituzione degli sconti, oltre a non poter essere integrale, dovrebbe tenere conto dei ricavi che l’operatore si aspetta di realizzare dall’offerta promozionale nell’arco dell’intera durata contrattuale. Pertanto, come indicato al punto 27 delle Linee guida, la restituzione degli sconti può avvenire “nel limite pari alla differenza tra la somma dei canoni che l’operatore avrebbe riscosso qualora fosse stato applicato il prezzo implicito e la somma dei canoni effettivamente riscossi dall’operatore fino al momento del recesso”. In altri termini, come più diffusamente chiarito nell’allegato B alla delibera n. 487/18/CONS, gli sconti possono essere recuperati nei limiti della “differenza tra quanto l’operatore si aspettava di realizzare sull’intera durata contrattuale e quanto effettivamente pagato dagli utenti”. Come riportato nella Comunicazione del 21 dicembre 2018, dall’applicazione di tale principio, discende che gli sconti che possono essere chiesti in restituzione a seguito del recesso “sono solo quelli relativi a importi periodici previsti dall’offerta la cui entità varia nel corso del rapporto contrattuale”. Di conseguenza, come espressamente e inequivocabilmente precisato nella richiamata Comunicazione, resta del tutto esclusa la possibilità di un recupero (integrale o parziale) dello sconto concesso sui contributi una tantum e sui prodotti, trattandosi di somme che l’operatore non avrebbe mai realizzato, nemmeno se l’utente avesse mantenuto in vita il contratto fino alla sua naturale scadenza. (…) la restituzione dello sconto sui contributi una tantum – integrale o parziale che sia – non è in linea con gli articoli 1, commi 3 e 3- ter, del decreto Bersani, costituendo un addebito di spese di recesso non eque e proporzionate al valore del contratto, con conseguente indebita limitazione della liberà di recesso.”
Tanto più che la Società era già perfettamente edotta della non conformità della pretesa restituzione, anche solo parziale, del contributo di attivazione non imputato in fase di adesione all’art. 1, commi 3 e 3-ter, del decreto Bersani e ai relativi orientamenti interpretativi dell’Autorità, puntualmente richiamati anche nell’atto di avvio del procedimento, essendo già destinataria di un procedimento sanzionatorio riguardante un’analoga condotta posta in essere nel settore delle offerte da rete fissa destinate alla clientela consumer, poi concluso con l’adozione dell’ordinanza ingiunzione n. 592/20/CONS.